Sono arrivata al terzo libro della D’Urbano ed ormai so con assoluta certezza che questa autrice o la si ama o la si odia. Io semplicemente la temo, perché so che quando inizio un suo romanzo, le sue parole mi colpiranno come pugnali e che per rimarginare le ferite causate dalle sue storie mi ci vorranno giorni, se non mesi.
Questo volume era sullo scaffale da molto, probabilmente troppo tempo, ma è stato quasi impossibile resistere alla tentazione di acquistarlo anche se, come con nessun autore se non lei, so che dovrà proprio giungere il momento giusto, se non perfetto, per iniziarlo.
I personaggi della D’Urbano sono rotti, sì, proprio rotti e anche se e dove non manifestino delle fratture evidenti, nel caso di questo libro Angelica ha il viso deturpato da cicatrici subite dopo un incidente stradale quando era piccola e Tommaso ha un problema alla vista e rischia di restare totalmente cieco, comunque si portano dentro e dietro le crepe di una spaccatura.
In questa mia recensione non voglio parlare della storia d’amore, che c’è, che è anzi il filo rosso probabilmente dell’intero racconto, che è il motivo innegabile che mi ha fatto versare qualche lacrima qua e là, che mi ha fatto, per certi versi, battere il cuore, come ogni volta che i protagonisti sono così giovani e sono alla loro prima esperienza di amore vero ed assoluto, quando si è incapaci di trovare una mediazione tra il bianco e il nero.
Non
vorrei neanche soffermarmi sulla capacità di questi personaggi di uscire fuori
dalle pagine, di essere, per quanto le loro vite possano essere portate all’esasperazione,
così reali e così veri.
E
neanche sulla forza ed il coraggio che ci mettono tutti, anche personaggi
secondari, ad esempio come Giulia, di cui ho condiviso rabbia e dolore, ad
alzare la testa, non piangersi addosso e lottare con ogni arma a loro
disposizione, per tornare ad amarsi.
Io vorrei solo, invece, urlare il motivo per cui questa autrice mi sia entrata così prepotentemente nella testa. La sua scrittura arriva dritta allo stomaco, è serrata, ruvida, non lascia niente di non detto o non definito, e non usa giri di parole o frasi astruse, no, lei con pochi vocaboli ti tira in faccia quello che ha deciso. Senza sconti. Senza gentilezza. Senza indossare guanti. Senza indorare la pillola.
Ho
capito che, aprendo un suo libro, io mi aspetto di restare senza fiato, di
avere il cuore accartocciato, di non riuscire a staccare il pensiero da quelle
pagine per ore, e non solo me lo aspetto, è proprio ciò che voglio. È quello
che cerco, è quello che, per assurdo, mi faccia stare bene nel dolore.
Sì,
forse rispetto ad altre sue opere, ad esempio Tre gocce d’acqua, in questo
testo, la D’Urbano ha anche moderato la sua innata attitudine a sconvolgere le
notti di povere lettrici, ma io, davvero, so che sicuramente passerà un anno
prima di iniziare un suo libro, già pronto sul comodino, ma che “aspetterò la
notte”, consapevole che per amare una scrittura questa deve portarti davvero in
luoghi in cui non sei mai stata e deve tenere il mondo fuori, anche solo per
una manciata di pagine.
Nessun commento:
Posta un commento