Generalmente evito come la peste libri che
trattino, anche lontanamente, temi sulla violenza sulle donne, ancor di più se
giovani adolescenti e quelli che abbiano avuto un successo quasi indiscusso. I
primi, per schivare un trasporto e un senso di perdita che mi prende sempre
davanti ad argomenti, ancor di più se fatti di cronaca, con un impatto emotivo
che non riesco più a controllare, da quando sono diventata madre. I secondi,
perché i libri che sono
piaciuti a tutti, o comunque alla maggior parte, mi fanno pensare ad un
politically correct che negli ultimi anni scongiuro. Ovviamente scegliendo
questo romanzo dalla biblioteca di Floriana, La biblioteca del libraio (forse
un giorno riuscirò anche a capire come facciano i libri a scegliere noi,
proprio quando non vorremmo essere scelti) sono venuta meno ad entrambi i miei
dictat.
Ma,
come dice Oscar Wilde, riferendosi alle tentazioni, per liberarsene bisogna
solo soccombere ad esse, quindi eccomi qui, seduta di fronte ad una violenza,
in cui la vittima, una giovane e bella sedicenne, addirittura perde la vita.
È
così che ho dovuto fare mio (perché i
libri su di me hanno questo potere: farmi immedesimare fino a scomparire) il
dolore di una madre a cui il marito comunica ciò che è successo in una assurda
notte di estate, in un luogo familiare come la spiaggia in cui Elisabetta è diventata
l’adolescente viva ed esuberante e vitale e
frizzante. Non solo una morte atroce, ma anche una violenza carnale sul corpo
che sprizzava energia da tutti i pori.
Ho
fatto mia la sofferenza, ma anche lo sdegno, di una madre che si è sentita
accusare di non aver saputo fare la madre, lasciando Elisabetta troppo libera
di pensare di andare e di dire. Da chi poi? Da chi avrebbe dovuto solo aiutarla
a superare un dolore inconsolabile ed una ferita impossibile da ricucire: sua
madre Letizia e sua sorella Emma, che invece di voler fare luce sulla vicenda,
trovando colpevoli e punendoli, hanno cercato in tutti modi di insabbiare
quelle già esigue informazioni che erano venute fuori. Si potrebbe pensare che
volessero, in qualche modo, anche se non giusto e corretto, salvaguardare la
cugina di Elisabetta, la figlia di Emma, cioè Miriam?
Credo
che no, a parlare sia stata solo la vergogna di un fatto che invece avrebbe
dovuto fare bollire loro il sangue di rabbia.
Miriam è l’altra vittima di questa storia, così diversa
da Elisabetta, così schiva e timida, che da quella notte è morta un po’ anche lei. Miriam, a differenza di
Elisabetta, è morta dentro ma è costretta a respirare e vivere, anche se si
impegna con tutte le forze rimaste, anche facendosi molto male, ad uccidersi un
po’ ogni giorno, non mangiando, non dormendo e
rinchiudendosi in un silenzio che crede l’aiuterà a
dimenticare. Dimenticare quella notte, quei ragazzi su Elisabetta, quegli
uomini dentro di lei, sua cugina morta a pochi passi da lei.
Tra
le critiche negative a questo romanzo, prima opera di Roberta Recchia, ho letto
di un finale troppo sdolcinato e dinamiche forse un po’ scontate.
Credo fermamente che l’autrice abbia saputo, invece, con parole
semplici e poco arzigogolate, discorsi immediati e per niente artificiosi o
ingarbugliati, dare uno spessore ad una storia che non aveva bisogno di
orpelli, ma solo di dolcezza e cruda realtà. E nient’altro. Credo
anche che nella vita di persone che abbiano toccato con mano un dolore così forte,
come Marisa e Miriam, ci sia bisogno di un Leo e di una Corallina a far tornare
un equilibrio smarrito fino al loro arrivo.
Miriam
non merita un po’
di pace, un po’ d’amore, una
carezza che finalmente parli di tenerezza e non di un’assurda violenza?
E
se arriva per mano di un ragazzo di borgata, Leo, che con semplicità ed
onestà le faccia tornare il
sorriso e la fiducia nel genere maschile, non è una bellezza e basta?
E
se arriva per mano di Corallina, che ha scoperto la felicità solo dopo essersi
liberata da Pietro, che per anni aveva occupato il suo corpo senza sapere
niente della sua femminilità, che riuscirà ad abbattere i muri di diffidenza
con un’innocua “pagnottella
di pane“,
non è una meraviglia che un libro possa dare?
Il
mio cuore si è accartocciato più volte, per Marisa, per Stelvio, per Miriam,
per Leo e per Corallina, perché sono
tutti personaggi che si trascinano per lunghissimo tempo un dolore, un’inadeguatezza e un silenzio assordanti.
Ma
dove c’è una mano che si tende c’è sempre un cuore che reagisce alla
solitudine, allo spavento, alla tragedia, all’assenza, alla
“dimenticanza”, termine bellissimo che la Recchia usa più di una volta.
Non credevo mi sarei lasciata rapire da una storia così drammatica, ed invece la scrittura ha anche il potere di farti ricredere su vecchie, e forse superate, convinzioni.
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